IL ROMANZO DI PAVIA, LA REGINA DEL TICINO - Palingenesi e l'orma di Roma Vol. I 90 a.c. - 455 d.c..

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Nel primo capitolo, chiamato “palingenesi”, termine che nel pensiero antico indicava varie concezioni filosofiche e religiose inerenti al rinnovamento o trasformazioni dell’individuo o del cosmo, ho parlato delle colossali trasformazioni geologiche che, iniziate nel Pliocene, hanno portato in milioni di anni alla formazione della pianura padana, con un accenno ai suoi primi abitanti.

La mente umana fatica ad immaginare i tempi e i modi con cui la Terra rimodella sé stessa, pensando di trovarsi nel luogo dove prima esisteva un grande golfo marino che lambiva il bordo meridionale delle Alpi e quello settentrionale dell’Appennino. Imponenti fenomeni vulcanici, terremoti, bradisismi e processi erosivi della neonata catena alpina produssero un'enorme quantità di sedimenti e detriti che si depositarono nelle avanfosse ai piedi dei rilievi. L’attività dei fiumi, successiva all’ultima glaciazione di WÜRM conclusasi circa 30.000 anni or sono, portò in tempo relativamente breve a uno scioglimento dei ghiacciai con liberazione di grandi quantità di acqua che erosero i grandi corpi morenici, prodotti dalle glaciazioni. Le acque trasportarono questo materiale in basso, formando agglomerati di enorme spessore che andarono a formare un deposito sul grande golfo marino. Nella sua parte meridionale, si formò il vasto bacino di sedimentazione su cui, grazie a continui apporti di ghiaia e sabbia fluviale, sarebbe sorta la pianura padana.

Nel periodo fra il paleolitico al mesolitico, questo nuovo territorio era probabilmente poco abitato, a causa della sua particolare storia idrogeologica che aveva reso difficile, se non impossibile, la creazione d’insediamenti rilevanti. Al termine dell'ultima era glaciale, la pianura era occupata da immense paludi e ricoperta da fitte foreste e, di sicuro, i primi abitanti stazionari della razza Homo Sapiens Sapiens che la colonizzarono si trovarono di fronte a un paesaggio certamente inospitale e ben diverso da quello attuale.   La vera nascita del popolamento nella pianura è databile intorno alla tarda Età del Bronzo, detta anche Bronzo recente o finale (1150-900 a.C. circa.). La caratteristica principale di questi insediamenti era la sua natura palafitticola. Le palafitte erano create nella zona argillosa che gli studiosi hanno denominato “Terramara”, dei cui abitanti poco si sa. La civiltà delle “terremare”, è stata inserita in quella che oggi i ricercatori chiamano “Cultura villanoviana”, ha dato luogo a molte discussioni per la difficoltà di dare a questi lontani antenati dei padani una più precisa definizione su base etnica.

Prima che Etruschi e Celti s’impadronissero delle loro terre, i terramaricoli avevano raggiunto una notevole strutturazione sociale e politica. oltre a dedicarsi all'agricoltura e alla caccia, avevano raggiunto un notevole livello d'evoluzione nel campo della ceramica e della tessitura. Producevano stoffe di lana e di lino e avevano raggiunto un discreto grado di specializzazione nella metallurgia e nella lavorazione dell'ambra. La civiltà terramaricola iniziò a scomparire in Italia, forse si trattò dell’antefatto dell’arrivo degli Etruschi. Infatti, dalla prima età del Ferro, dal IX secolo a.C., si registrò nella parte meridionale della valle del Po un improvviso e consistente incremento demografico, generalmente attribuito all'arrivo di gruppi umani provenienti dall''Etruria tirrenica. Documenti storici narrano della ricostruzione, per mano dei superstiti, di villaggi distrutti in tutto il territorio bolognese. Il V a.C. secolo fu il momento della massima espansione della civiltà etrusca sul territorio padano, il "periodo d'oro" dell'Etruria padana, la cui civiltà era destinata a soccombere con l’arrivo in massa di tribù celtiche.

‘È documentato, che in quell’epoca popolazioni celtiche di origine transalpina invasero in massa i territori occupati dagli Etruschi, dai Liguri e dagli Umbri e si spinsero fino a Roma che fu occupata e saccheggiata. Conseguenza evidente dell'invasione fu lo scardinamento del sistema politico ed economico creato dagli Etruschi padani. I La memoria storica romana, pur tra evidenti falsificazioni promozionali, ci ha consegnato diversi resoconti degli avvenimenti. Un accento particolare viene posto sulla portata della minaccia celtica nei confronti dell'emergente Roma: il sacco di Roma, sicuramente avvenuto qualche anno dopo la tradizionale data del 390 a.C., è descritto come un evento dagli effetti pressoché distruttivi e potenzialmente destabilizzanti per la sopravvivenza dell’Urbe.

 

 

SINOSSI Capitoli 2-3-4°

 (L’orma di Roma)

Al di là delle fantasiose leggende scritte da Opicino de’ Canistris sull’origine di Pavia, risulta difficile parlare di una fondazione. Sul piccolo colle dove sarebbe nata, di sicuro esistevano nuclei di capanne, i cui abitanti erano gente di stirpe celta o mista celto-ligure. Gente forte, orgogliosa soprattutto delle memorie guerriere e delle vittorie su Roma, umiliata ed occupata dal grande capo Brenno.

Ma Roma era tornata all’attacco e nel 225 a.C. aveva inflitto ai Celti a Talamone una sconfitta che aveva segnato il loro destino. La conseguenza di questa vittoria era stata la decisione di chiudere definitivamente il conto con questi nemici, iniziando la conquista della Gallia Cisalpina. Nel 218 furono create le colonie di Cremona e Piacenza, forti basi per le successive operazioni militari.

Il capitolo due parla dell’occupazione militare della collina sulla riva destra del Ticino, dove c’era un pugno di capanne abitate da secoli da Levi o Marici, gente di origine e lingua celta. L’interesse dei Romani era la creazione un caposaldo per il controllo di una zona dove le piste stradali e fluviali si rannodavano. Quel villaggio senza un nome (non c’è traccia di nome celta o ligure), sgombrato dei suoi abitanti, viene trasformato in accampamento e quindi successivamente in città dai Romani che, avendo chiamato quel fiume Ticinus (dal celtico Tekhim) le danno il nome di Ticinum. La definitiva romanizzazione avviene con la legge emanata dal console Gneo Pompeo Strabone nel 89 d.C. (Lex Pompeia), con la quale viene concesso il diritto latino alle comunità mantenutesi fedeli a Roma.

Nel racconto vengono sottolineati i contrasti sorti in un primo momento fra gli abitanti espulsi ed i primi romani, odiati come invasori e soggetti ad attentati. La resistenza è promossa soprattutto dalla casta religiosa dei druidi, ai quali veniva sottratto un potere esercitato per secoli. In questo contesto si inserisce l’amicizia fra due giovani, un romano ed un celta il cui lento passaggio alla civiltà romana si concluderà in modo drammatico ed una storia d’amore fra un romano ed una giovane celta. Su questi incontri, fra etnie diverse e all’inizio nemiche, si pongono le basi di quella che negli anni a venire sarà la razza gallo-romana. Questa nuova etnia, completamente latinizzata da immigrazioni successive, dominerà la regione per tutta la durata dell’Impero Romano.

Il capitolo tre si svolge in un periodo storico molto importante per il nord Italia. Fra il 280 e il 350 d.C., Roma è sempre meno caput mundi. In quest’epoca l’Impero ha rischiato la totale disgregazione a causa di problemi iniziati molti anni prima, con un continuo avvicendamento di Imperatori e usurpatori ed una corruzione non più arrestabile. Dopo l’assassinio di Alessandro Severo, c’era stata una continua successione d’imperatori, spesso di autonomina, che hanno retto il potere pochi anni o pochi mesi. Negli ultimi cinquant’anni, l’Impero era stato dilaniato da guerre intestine: il potere era passato di mano in mano a chi aveva pagato di più i pretoriani o i soldati delle legioni, per essere nominato Imperator da costoro. Ormai Mediolanum, trasformata in una metropoli da Diocleziano e Massimiano, era il vero centro del potere e Ticinum aveva avuto il privilegio dall’imperatore Aureliano di essere designata come sede della zecca imperiale. Tale privilegio sarà interrotto da Costantino che, con la chiusura definitiva delle Zecche di Mediolanum e Ticinum nel 327 d.C., per trasferirle a Costantinopoli.

Tutto ciò è narrato in prima persona da un uomo, nato schiavo, poi diventato liberto e infine libero “cives romanus” perché autore delle incisioni più importanti, che chiuderà la carriera con la qualifica di “Rationalis summae rei”. Questo era il titolo dato a partire dal III sec. d.C. al responsabile del fisco, sotto la cui responsabilità stavano l'amministrazione dei tesori imperiali, il controllo delle ricchezze provinciali e l'amministrazione delle spese. Quindi, anche dell’organizzazione dell'attività di tutte le zecche imperiali.

Compare per la prima volta l’ascesa del cristianesimo che si diffonde a tutti i livelli, prima contrastato ferocemente (San Dalmazio venne martirizzato sotto Massimiano) e poi riconosciuto definitivamente da Costantino.

Nel capitolo 4, l’orma di Roma ormai impallidita, si percepisce ancora attraverso le memorie di un medico che visse gli ultimi giorni del moribondo impero, ormai in mano ai barbari che preferivano attribuire alla pallida figura di un nobile romano il titolo di Imperatore per poi governare in sua vece. Dopo l’assassinio di Valentiniano, attorno a cui si coagulava la lealtà delle province romane, la corona dell’Impero d’Occidente era divenuta oggetto di contesa in mano ai comandanti germanici ed alle truppe unno-germaniche che li seguivano. Ormai, costoro nominavano e deponevano imperatori a loro discrezione. Così, avevano agito Gundobald che aveva fatto eleggere Glicerio. Dopo di lui, in modo analogo si era comportato il goto Ricimero che, malgrado avesse promosso l’elezione ad Imperatore di Maggioriano lo aveva arrestato e poi fatto decapitare a Voghera, per nominare al suo posto l’inetto Libio Severo, morto dopo quattro anni di regno. Questa politica esponeva il generale germanico di turno, al rischio che l’imperatore fantoccio decidesse di sostituirlo con un altro barbaro. Forse per questo non avevano ancora osato autonominarsi Imperatori. Avrebbero potuto mettere da parte la legittimità, salire sul trono con la forza delle armi; quella stessa forza di cui, dopo di loro, si sarebbe servito l’erulo Odoacre per abbattere Oreste e deporre Romolo Augustolo nel fatale 476, convenzionalmente preso ad indicare il collasso e la fine dell’Impero. Tutte queste figure e i finti imperatori, scompariranno, dopo il 488, quando compare in Italia Teodorico con i suoi Goti che, dopo aver sconfitto e ucciso Odoacre impone il suo potere sulla intera penisola assumendo il titolo di re, mai riconosciuto dall’imperatore d’Oriente. Con lui. l’alba del Medioevo si annuncia sulle rovine di quella che era stata la potenza più grande della Storia antica.